domenica 3 gennaio 2010

TIZIANO TERZANI: Un altro giro di giostra




“C’era qualcos’altro lassù che col passare del tempo divenne per me sempre più importante: il silenzio.  E’ un’esperienza a cui non siamo più abituati. Lassù faceva da sottofondo a tutte le esperienze (…)Di notte il silenzio era unico, sordo rimbombo che usciva dalle viscere della terra, attraversava i muri, entrava dappertutto. Il silenzio lassù era un suono (…). La voce di Dio ? La musica delle sfere?”

Leggendo questo brano di “Un altro giro di giostra”, di Tiziano Terzani, non ho potuto fare a meno di pensare all’Om, all’Amen,  e di ricordare i primi passi della Bibbia: “in pricipio era il Verbo, e il Verbo era pressso Dio…“. Quest'opera, di spunti di riflessione di questo tipo ne è infarcita, ne è zeppa, perché parte dalla domanda “io, chi sono?” che si pone l’autore quando pensa di essere alla fine della sua via a causa di una diagnosi infausta di cancro. E in quel momento l’uomo rinuncia al gioco, alle sciocchezze, alle occupazioni, alle distrazioni che avvolgiamo con un velo di importanza denominandole “lavoro”,  “mestiere”, “responsabilità”. Ma che ci allontanano sempre di più dalla ricerca fondamentale: perché siamo qui? E’ tutto un caso, una evoluzione della specie? E se non è così, allora, perché? E qual è la Causa delle cause? In occidente siamo abituati, quali degni eredi di Cartesio, a scandagliare, a ricercare, ad entrare nell’infinitamente piccolo. Ma abbiamo perso di vista l’obiettivo finale: se non è tutto un caso, quando,  nelle nostre vite,  entra un minimo di riflessione, di ricerca spirituale, di un sapere che non sia solamente pratico e tecnologico? Ormai molto raramente, sporadicamente.Ma non è il caso di andare in India o sull’Himalaya per riflettere, per avvicinarsi a nostro Sé: lo possiamo fare anche nel condurre le nostre vite qui,  a patto di condurre una vita “in cui possiamo riconoscerci”.

 

 

LA ZIA MARCHESA - Simonetta Agnello Hornby


Sapete chi è l'elegante signora raffigurata nella foto a fianco?
No, non è la nonna di Helena Rubinstein.
E' un avvocato.
Londinese. O meglio, siciliano, ma residente a Londra, causa matrimonio con un autoctono. Specializzato in cause di maltrattamenti ai minori et similia.  
E ormai avete capito chi è. E' Simonetta Agnello Hornby, portata agli onori delle cronache letterarie col romanzo che l'ha fatta conoscere al mondo, per quanto non fosse il suo primo lavoro come scrittrice. La mennulara.
Ed è infatti proprio della Mennulara (cioè la raccoglitrice di mandorle, in dialetto siciliano) che vorrei parlare
Non ho conosciuto i lavori della Agnello Hornby tramite questo celeberrimo romanzo, ma tramite  uno più...negletto, quasi dimenticato, in confronto: La zia marchesa.
Un romanzo che ricorda molto il Gattopardo sia per il luogo di ambientazione, sia per il periodo storico preso in considerazione  e forse anche un po' per lo stile, che ricorda vagamente Tomasi di Lampedusa. Nel romanzo della Agnello la storia d'amore è più marcata e predominante rispetto al contesto storico ed alla narrazione dei cambiamenti storici in una Sicilia che pian piano sta vedendo scomparire il potere dei vecchi latifondisti per l'affermarsi sempre più pregnante di connivenze politico-borghesi che fungeranno da background per il nuovo potere nascente, la mafia. Ma è un romanzo che coinvolge, mai pesante, che si legge volentieri e si ricorda, come anche "Boccamurata", che però mi sembra ricorrere troppo allo scandalo sensazionalistico per attrarre attenzione e che trovo comunque meno immediato.
Non così coinvolgente la Mennulara, che ho trovato pesante e macchinoso, quasi astruso, direi, sfociante a volte nell'assurdità al limite del grottesco, soprattutto nell'ultima parte.
Così mi chiedo: quali strategie fanno portare un romanzo mediocre, secondo me, agli onori delle cronache e uno migliore nel dimenticatoio? Quali tattiche editoriali sono state portate avanti per spingere un prodotto piuttosto che un altro? Forse si fa un sondaggio sull'utenza media di lettori e si valuta quanto siano lettori "onesti" e quanti invece abbiano bisogno di artifici letterari, di misteri alla Dan Brown o altre sciocchezzuole per riuscire a terminare un libro?
Ad ogni modo a me gli scritti della Agnello, e in fondo anche "la mennulara", piacciono: la consiglio!

IL MONACO CHE VENDETTE LA SUA FERRARI - Robin Sharma


L' Himalaya. Il Nepal. 
Un monaco solitario che percorre un sentiero tortuoso.
Sono immagini che nell'immaginario collettivo evocano pensieri di quiete, meditazione, saggezza. Forse, anzi sicuramente, alla ricerca di tutte queste cose, ho comprato e letto l'ennesimo libro sul tema,  anche se questo, dal titolo, sembrava un po' diverso: "Il monaco che vendette la sua Ferrari", di Robin Sharma. L'accenno alla Ferrari faceva presagire un libro ironico, divertente, che magari dicesse le solite cose ma in un modo meno ordinario, più ironico,  chissà! 
E invece no.
Sono veramente le solite cose dette nella solita maniera. Quali "solite cose"? Beh, la solita paccottiglia new age, mischiata ad un pot pourri di discipline orientali, mescolando tecniche indiane, giapponesi, cinesi, consigli di buon senso e suggerimenti semplicissimi per arrivare ad una vita appagante, liberi dalla schiavitù del lavoro, ricchi, felici e addirittura...ringiovaniti!!  Uno scherzo, dice l'autore tramite il protagonista del suo romanzo-saggio: trova più tempo per te, non farti triturare dal lavoro, dedica più tempo ai figli, concentrati sul presente, aiuta gli altri, definisci chiaramente i tuoi obiettivi. 
Ah, e io, cretina, che non lo avevo mai fatto!! Che ogni mattina mi scapicollo al lavoro dopo aver lanciato il mio bimbo all'asilo, che ho l'ansia se non riesco a terminare il mio lavoro per le giuste scadenze e arrivo a casa stanca morta  e con poca, se non nulla, voglia di giocare a con mio figlio.  Eppure, leggendo questo libro, parrebbe tutta colpa mia: sono una vera incapace, incapace di gestire il mio tempo, le mie occupazioni, i miei stati d'animo, tutto.
Lì per lì la voglia è stata di buttare questo libro dalla finestra o rifilarlo a qualche "amica". Poi  mi sono detta...ma..e se avesse ragione lui, l'autore (che, guarda caso, di professione non fa il monaco, ma il personal coach, cioè, per miserrime cifre, aiuta gli altri a riordinare la propria vita, insomma, un santo)? Se almeno ci provassi, a prendere le cose con un più mistico distacco, se provassi a non affannarmi per tutto, se dedicassi parte del mio tempo ad analizzare la mia giornata e a pensare a cosa vorrei veramente realizzare in questo breve tempo chiamato vita? Vorrò mica fare dichiarazioni dei redditi per tutta la vita? A pensarci bene, la cosa mi sconvolge: ecco perchè, in fondo, non mi ci sono mai soffermata più di tanto sul "come" passo le mie giornate e come mi guadagno il pane! E ora che ci ho pensato, sapete che faccio? Vendo la mia Ferrari e me ne vado sull'Himalaya! Non mi cercate.

giovedì 31 dicembre 2009

BHAGAVAD GITA, cap XVIII, verso 47


"MEGLIO COMPIERE IL PROPRIO DOVERE, ANCHE SE IMPERFETTO, CHE ASSUMERE QUELLO DI UN ALTRO, PER COMPIERLO PERFETTAMENTE. ESEGUENDO I DOVERI PRESCRITTI SECONDO LA PROPRIA NATURA, NON S'INCORRE MAI NEL PECCATO."


Quante volte ho ripensato a questo verso della Bhagavad Gita.
Quella copia della Gita che mi è stata regalata tanti anni fa, da un ragazzo (ora so che era un monaco induista), e che spesso leggo, senza per questo volermi assolutamente spacciare per un'intenditrice. Ma l'India e i suoi insegnamenti sono nel mio cuore, e così, a volte, troppo poche in questi ultimi anni, troppo assorbita dal lavoro o meglio dalle distrazioni (per dirla con Tiziano Terzani), a volte leggo qualche verso, e ci rifletto sopra.
E così, stanotte, che è Capodanno di un nuovo anno, voglio tenere più presente questo verso. Meglio fare, per quanto in modo imperfetto, il PROPRIO dovere, piuttosto che fare perfettamente quello di un altro.
E qual è il nostro dovere? Cosa ci dice la Gita? Che è meglio continuare a fare bene il proprio lavoro, che magari non è quello per cui siamo portati, verso cui siamo più dotati, ma semplicemente quello che stiamo svolgendo attualmente, piuttosto che svolgere sporadicamente un altro tipo di lavoro, magari più consono a noi, in modo dilettantesco, sporadicamente, imperfettamente?
No.
Ci dice esattamente il contrario.
Il "nostro" lavoro, il "nostro" dovere è proprio quello verso cui siamo più portati, più inclini! Notizia meravigliosa! Ci sta dicendo che se si hanno tendenze artistiche o umanistiche, occorrerà volgere i nostri sforzi in quella direzione, e non cercare di essere un ottimo ingegnere meccanico. E viceversa.
E' proprio così, non è un'interpretazione di comodo, ma deriva anche da un autorevole commento (Swami Prabhupada). La Gita ci dice di seguirci (come Franco Battiato!), di conoscerci, sapere a che tipo umano apparteniamo, e seguire la "nostra" natura. Non un'altra. E' un compito (di ricerca, per conoscere se stessi) ed è un dovere (di seguirci, di seguire la nostra vera natura).
Io ho fatto esattamente il contrario.
Ma per questo anno nuovo, per questo 2010, voglio iniziare a compiere il "mio" dovere.
Ed è questo l'augurio che invio a tutti voi.

IL PAESE DELLE MERAVIGLIE, di Giuseppe Culicchia




Italia, anno 1977. Attila e Franz sono amici e compagni di banco; frequentano la prima superiore di un istituto tecnico a Torino, ed insieme, ogni mattina, prendono il treno che li porta dal loro paese, nell’interland torinese, al capoluogo. Attila, timido e introverso, viene da una famiglia disfatta: il padre, un operaio ormai spento e rassegnato, trascorre il suo tempo libero a costruire gabbie per canarini chiuso nel garage di casa; la madre conduce la sua vita tra i rimpianti per un’ipotetica mancata carriera di attrice drammatica e le letture in chiesa, vicina, troppo, a Don Curio, umiliando in continuazione il marito, il “napuli”, che non ha saputo offrirle una vita più agiata, come è accaduto invece alle sue sorelle, sposate a dei facoltosi industrialotti locali. E c’è Alice, la tanto amata sorella di Attila. Alice “trecce rosse occhi blu”, che per sfuggire all’ipocrisia della sua famiglia se ne andrà via, a Milano, con l’unico dispiacere di lasciare lì, in quella famiglia allo sbando, il suo caro fratellino. Attila si rifugerà allora nell’amicizia con Franz, il suo compagno di banco, un “camerata” con nostalgie nazifasciste, che non studia ma che recita a a memoria i discorsi del duce e che si studia la storia del Terzo Reich. Franz, il pazzo, sempre sopra le righe, sempre troppo fumato, sempre troppo bevuto, violento, dissacratore, sempre tutto, sempre troppo. Tra i due nasce un’intesa, un’amicizia che sarà per entrambi l’unica via di fuga, in un contesto dove, attorno al piccolo e sonnacchioso paese dei due protagonisti, l’Italia brucia: sono gli anni di piombo, delle brigate rosse, delle gambizzazioni ai giornalisti, della scuola allo sbando, ma sono anche gli anni dell’esplosione del Punk, gli anni dei Clash, dei Ramones, dei Sex Pistols, che con la loro rabbia, la loro ribellione e il loro disprezzo verso tutto e tutti, arriveranno ad essere gli unici punti di riferimento dei due protagonisti e di tutti quelli come loro. In questo clima di ipocrisia - familiare, scolastica, politica - i protagonisti vanno ognuno verso il loro destino, marionette trasportate dagli eventi che si succedono drammaticamente attorno ad esse, inesorabilmente.

In questo libro non c’è famiglia, non c’è scuola, non c’è Stato. Un libro senza speranza. Una generazione senza futuro. Sullo sfondo, la musica dei Sex Pistols. Giuseppe Culicchia racconta la disfatta dei valori in un’Italia devastata dagli anni di piombo attraverso gli occhi di due adolescenti, con uno stile crudo, tagliente, che offre momenti di puro divertimento ed ironia contrapposti ad altri di amara disillusione e di cocente disperazione. Una riflessione “dura e pura” su un periodo che ha costituito una delle peggiori pagine dell’Italia moderna

p.s. Tale recensione è stata anche da me pubblicata su Sololibri.net

DOVE ANDIAMO, PAPA'? di Jean-Louis Fournier





Mathieu e Thomas sono fratelli. Ma sono fratelli che condividono un amaro destino: entrambi, infatti, sono portatori di una sindrome genetica che li rende totalmente disabili, incapaci di provvedere a se stessi ed alle funzioni minime della vita, a tal punto da dover essere ospitati a vita in un istituto specializzato. O meglio, solamente Thomas, in quanto Mathieu morirà precocemente, ponendo fine alle sue sofferenze terrene. Thomas, invece, come un bambino invecchiato, continuerà a trascinarsi per i corridoi dell’istituto ospitante parlando alla sua stessa mano, sempre più curvo, sempre più solo nel suo mondo. E il suo unico contatto col padre, noto umorista e sceneggiatore francese che ha avuto il destino beffardo di avere non uno ma due figli con lo stesso tipo di disabilità, sarà sempre e solo la domanda:“ dove andiamo, papà?”. Ininterrottamente, instancabilmente. E questa sarà anche l’unica domanda che il genitore si sentirà rivolgere da suo figlio: non domande sul perché il cielo sia azzurro o perché l’erba sia verde, o sul perché si debba andare a scuola o consigli su quale tipo di indirizzo scolastico scegliere, no: Mathieu e Thomas non daranno simili pensieri o grattacapi ai loro genitori, la loro vita sarà estremamente semplice, ed è già chiaro fin dalla nascita che cosa faranno nella loro vita: niente. Niente feste di laurea, nessun primo amore da riaccompagnare a casa la sera, nessun quesito nella loro vita. Se non quello, il solito, “dove andiamo, papà?” Un quesito a cui il padre, a volte, è tentato di rispondere con la voce della disperazione e dell’amarezza, rispondendo “andiamo a prendere l’autostrada, contromano”. Infatti, non ci sono solo i problemi di Mathieu e Thomas, ma anche quelli di un padre che non sa come gestire questo destino beffardo che gli ha regalato due figli particolari, che non sa se sarà all’altezza di tale compito, che non tiene nel portafogli fotografie dei suoi bambini, dei suoi due “uccellini spiumati”, che pure però gli regalano momenti di divertimento e di tenerezza. Ed ora, che Mathieu“è andato a cercare la sua palla troppo lontano” e che Thomas si aggira solitario per i corridoi dell’Istituto, vuole regalare un libro ai suoi figli, il libro che non ha mai regalato loro perché non sarebbero stati in grado di leggerlo, affinchè non siano dimenticati, “perché non siano solamente una fotografia su un certificato di invalidità”.

Il libro è un’amara ma nello stesso tempo ironica, ed a volte persino spassosa, riflessione sulla condizione dell’invalidità vista dalla parte del genitore, sulla delusione e lo sconforto di dover gestire dei figli “diversi”, sull’amarezza di non avere obiettivi o aspettative simili alla maggioranza degli altri genitori, ma anche un libro da cui traspare in ogni pagina anche l’orgoglio di essere portatori di un destino ben più importante e gravoso. Una riflessione condotta con uno stile ironico e pungente che offre momenti di autentico divertimento insieme ad altri di profonda commozione.


p.s.Tale recensione è anche stata da me pubblicata su sololibri.net

"UNA BARCA NEL BOSCO", di Paola Mastracola




Gaspare Torrente lavora in un bar a Torino, più precisamente nel suo bar, e trascorre la giornata preparando caffè e tramezzini al prosciutto. Eppure Gaspare Torrente è un avvocato. Eppure Gaspare Torrente era un talento. Con un’attitudine naturale allo studio, quello vero, profondo, soprattutto dei classici latini, tanto che, terminate le scuole medie, Madame Pilou consiglia ai suoi genitori di mandarlo a studiare in una scuola come si deve, di non lasciarlo lì, sull’isola, a sprecare il suo talento per magari finire poi a fare il pescatore, come il papà. No, lui può ambire agli studi migliori, al liceo, in una grande città, a Torino, dove ci sono scuole adeguate alla sua intelligenza ed al suo talento. E così inizia l’odissea di Gaspare, ma non solo sua, ma anche dei suoi genitori, costretti a vivere separati, la mamma a Torino col figlio, ad arrabattarsi giorno e notte con una gastronomia per tirare avanti, e il padre solo, giù sull’isola, a pescare per mantenere quel figlio tanto bravo, su a Torino, che prende tutti dieci grazie agli insegnamenti impartitigli in precedenza da Madame Pilou sulla sua isola. Ma qui, nel liceo tanto orgogliosamente frequentato da Gaspare, quegli insegnamenti sono di troppo, sono di impiccio. Studiare in una grande città è diverso che studiare su un’isola, con i vecchi e obsoleti libri alla mano: nelle scuole moderne si usano cassette, computers, videocorsi, televisioni, e soprattutto non si opprime il povero studente con compiti impegnativi che potrebbero ledere il suo equilibrio e la sua personalità, non lo si mortifica con un voto negativo che potrebbe avere conseguenze nefaste, non gli si ottunde la mente con un eccesso di nozioni, no: l’importante è socializzare, fare gruppo, essere integrati, andare a feste, parlare un linguaggio convenzionale da adepti; lo studio, poi, lo si potrà coltivare, se proprio ci si tiene, da soli, come hobby, un qualcosa in più. E Gaspare pian piano entrerà in questa logica di integrazione, di coesione, impegnandosi a far scendere la media dei suoi voti per adeguarla a quella dei compagni, per essere accettato, per non essere escluso, per non essere solo, in un lungo percorso di livellamento e di inquadramento. E ci riuscirà, perché Gaspare è un talento!

Un libro amaro e reale, una dolorosa riflessione su una scuola che sembra aver perso la sua missione culturale per diventare puro luogo di aggregazione, perdendo ogni connotazione ed ogni velleità di formazione, ma anche un libro sulla solitudine, sulla mancanza di integrazione, ed, in fondo, sull’emarginazione. Purtroppo, ancora oggi non sconfitta.

p.s.: tale recensione è stata da me anche pubblicata su sololibri.net